Di recente è tornata sotto i riflettori della stampa la problematica del consumo (e dell’abuso) di sostanze dopanti e di psicofarmaci da parte degli studenti svizzeri universitari, ticinesi e non.
Uno studio realizzato nel 2015 da un team di ricerca dell’istituto Plus One ha infatti evidenziato una tendenza davvero preoccupante: tra gli studenti universitari svizzeri è in corso un vero e proprio “boom degli psicofarmaci”, assunti in particolare per migliorare le proprie prestazioni intellettuali e per reggere la pressione degli esami.
Se osserviamo i dati raccolti a Zurigo (università e politecnico) e a Basilea (università), possiamo ben renderci conto della gravità della situazione:
“il 22% dei partecipanti al sondaggio ha affermato di aver assunto almeno una volta delle droghe farmacologiche o ricreative con l’obiettivo di aumentare le proprie performance cognitive durante lo studio. Inoltre, il 12% degli intervistati ha dichiarato di aver utilizzato dei farmaci senza prescrizione, e il 14% di aver usato alcool e altre sostanze illegali per accrescere le proprie facoltà intellettuali. L’alcool, il metilfenidato (meglio noto come Ritalin, ndr), la cannabis e i sedativi sono le sostanze più utilizzate per raggiungere questo obiettivo“.
Comparando i risultati di un’analoga indagine del 2013 (13.8% = almeno una volta; 7.6% = farmaci su prescrizione; 7.8% = alcool e altre sostanze), possiamo facilmente vedere come questa sia una pratica sempre più diffusa e quasi abituale per molte studentesse e molti studenti degli atenei svizzeri. Ricordiamoci infatti che, secondo lo studio del 2015, ben oltre il 16% di questi ha affermato di aver assunto “potenziatori cognitivi farmacologici” prima dell’ultimo esame sostenuto.
La drammaticità di questa situazione non ci permette di condividere l’ottimismo ipocrita di atenei come l’università di Basilea, che di fronte all’evidenza dei fatti (l’inchiesta è stata condotta anche in questo istituto), si rallegra del fatto che ben il 70% degli studenti consideri “sleale” l’utilizzo di droghe per il potenziamento cognitivo. Come se il fatto di condannarne l’uso sia una buona ragione per precludersi il ricorso a sostanze che vengono viste come l’unica via di fuga da una situazione di estrema competizione e forte stress (e i dati sono li a dimostrarlo).
D’altra parte, nemmeno le scuole universitarie ticinesi brillano per volontà di porre rimedio alla problematica. Come riporta il portale Ticinonline, l’USI e la SUPSI nostrane si sono dotate di appositi sportelli per gli studenti in difficoltà. Purtroppo la ricetta è ormai ben nota: colpevolizziamo le vittime di questa situazione, cercando di spingerle ad interrompere il consumo, senza fornire però loro alcuna soluzione alla situazione di disagio che stanno affrontando.
Noi non difendiamo certo questa pratica, ma ci pare che ancora una volta si affronti il problema dalla prospettiva sbagliata: sono gli studenti che sbagliano ad assumere delle sostanze psicoattive o è la scuola stessa che sbaglia a metterli nella situazione di arrivare a prendere in considerazione questa opzione?
La risposta ci pare evidente: non sono tanto gli studenti a dover venir messi sotto accusa – quasi l’università fosse una sorta di covo di dopati senza prospettive – ma è la scuola stessa, che li mette in condizioni di perenne competizione con i compagni, oberandoli di lavoro, che deve essere oggetto di riflessione. È qui che bisogna intervenire, per riportare la scuola e la trasmissione del sapere ad una dimensione più umana e meno aziendale, in cui conti la costruzione collettiva dei saperi e non il raggiungimento di determinate performance di studio (e di produzione poi).