La recente revisione della Legge sull’orientamento scolastico e sulla formazione professionale e continua (Lorform) arricchisce di un altro elemento il già complesso puzzle delle riforme che stanno investendo la scuola ticinese. L’ampio sostegno del Gran Consiglio, pressoché unanime nell’approvare l’iniziativa parlamentare di Nicola Pini e cofirmatari (gli unici contrari sono stati i deputati Massimiliano Ay, Partito Comunista, e Matteo Pronzini, Movimento per il Socialismo), potrebbe lasciar intendere che questa sia una riforma estremamente necessaria e priva di qualunque rischio per l’integrità del nostro sistema scolastico.
Purtroppo, non è questo il caso. Anzi, è proprio la grande condivisione di questo progetto a farci preoccupare: essa rappresenta infatti l’ennesimo segnale della più totale subordinazione della sinistra di governo nei confronti delle proposte politiche del padronato in materia d’istruzione. Un segnale che non promette nulla di buono per il futuro: al momento della prova dei fatti (ossia, al momento del voto sul progetto “La scuola che verrà” e sull’iniziativa parlamentare “La scuola che vogliamo”), il Partito Socialista sarà capace di denunciare i rischi per la scuola pubblica o continuerà a chinare la testa di fronte all’offensiva della destra?
Ma andiamo con ordine.
L’iniziativa del padronato e l’iter parlamentare
il 23 novembre 2015 Nicola Pini (PLR; già collaboratore della direzione di AITI – Associazione Industrie Ticinesi), Alex Farinelli (PLR; vicedirettore della sezione ticinese della SSIC – Società Svizzera degli Impresari Costruttori), Paolo Pagnamenta (PLR; impresario costruttore), Marco Passalia (PPD; vicedirettore della CC-TI – Camera di commercio, dell’industria, dell’artigianato e dei servizi), Giorgio Fonio (PPD; sindacalista OCST) e Lorenzo Jelmini (PPD, sindacalista OCST) depositavano l’iniziativa parlamentare “Le organizzazioni del mondo del lavoro collaborino all’orientamento professionale dei nostri giovani”, con la quale si chiedeva di modificare come segue la suddetta Legge sull’orientamento:
Art. 30 – Collaborazioni
All’attività di orientamento dei giovani collaborano le direzioni scolastiche, i docenti, i servizi del Cantone interessati all’attività orientativa, le associazioni dei genitori e le organizzazioni del mondo del lavoro.
A sostegno della loro proposta, gli iniziativisti indicano numerosi motivi:
- “Vi è un comprovato manco di conoscenza e di consapevolezza di molte opportunità formative di qualità e di carriera nell’ambito della formazione professionale”
- “Il sistema duale svizzero è correlato a dei risultati positivi in termini di integrazione nel mondo del lavoro (…) Il Ticino è l’eccezione che conferma la regola: esso ha infatti un tasso di disoccupazione giovanile e una quota di licealizzazione più alte”
- “Occorre avvicinare l’Ufficio dell’orientamento scolastico alla formazione professionale e alle varie attività economiche (…) per sviluppare conoscenze delle varie professioni e per migliorare la capacità di previsione rispetto alle tendenze del mercato del lavoro”
- “Vi sono genitori distanti e disinteressati che delegano impropriamente compiti e scelte educative alla scuola, mentre altri al contrario sono invadenti e tendono a voler proiettare sui loro figli le loro aspirazioni (…) Anche loro vanno coinvolti, adeguatamente informati, sensibilizzati, responsabilizzati.”
L’origine (e le finalità) di questa riforma dovrebbero essere ora ben chiari anche al meno attento dei lettori: con questa iniziativa, il padronato mirava a porre le basi legali per l’assoggettamento (di fatto già in parte esistente) dell’orientamento scolastico alle proprie esigenze contingenti in termini di manodopera. Concretamente, ciò dovrebbe tradursi in una maggior promozione (con modalità quasi pubblicitarie) della formazione professionale (evidentemente più congeniale al mondo dell’impresa, che la gestisce in prima persona e che può determinare in autonomia le quantità di personale da formare per ogni profilo professionale), a scapito dell’istruzione liceale, identificata come la causa principale (!) dell’alto tasso di disoccupazione giovanile in Ticino (che nel 2014 si attestava al 17%, secondo i criteri dell’Organizzazione mondiale del lavoro – ILO).
Nulla di nuovo sotto il sole: sono anni che la destra e gli imprenditori battono il chiodo della cosiddetta “trappola dell’accademizzazione”, sostenendo che occorrerebbe adeguare il nostro sistema scolastico al modello (molto più selettivo) in vigore nella maggioranza dei Cantoni d’Oltralpe. Tuttavia, come detto, a sinistra si è caduti in un’altra trappola, quella abilmente tesa dagli iniziativisti, che si sono premurati di coinvolgere alcuni miti e collaborativi sindacalisti di OCST, dando prova della volontà di dare spazio anche alla parte sindacale nella gestione delle attività di orientamento scolastico. E così, tanto il messaggio governativo quanto il rapporto commissionale non presentano alcuna critica al progetto, condividendo in toto le rivendicazioni finora proprie del padronato e conducendo al risultato di mercoledì scorso: i gruppi di PS e Verdi sostengono compatti la modifica di legge, e lasciano l’orientamento scolastico nelle smaniose (e compiaciute) mani di AITI, SSIC, CC-TI, ecc.
Senza voler entrare nel merito delle critiche mosse all’atteggiamento dei genitori (che non tengono minimamente conto della situazione sociale, familiare e lavorativa delle famiglie, ma mettono in un unico calderone tutti i genitori “non virtuosi”, come se la loro capacità di seguire i figli nel percorso scolastico – e la loro possibilità di farlo! – dipendesse unicamente da una particolare predisposizione per l’attività di genitore), crediamo sia doveroso ritornare su alcuni aspetti sollevati dai promotori dell’iniziativa (ma ben poco corrispondenti alla nostra realtà cantonale), ma soprattutto sui seri rischi collegati a questa riforma.
Tanti liceali = tanti giovani disoccupati: ne siamo davvero sicuri?
Come abbiamo visto, secondo Pini e compagni “l’eccessivo” tasso di licealizzazione del nostro Cantone (al termine della scuola media, circa il 40% degli allievi decide di iscriversi ad una Scuola Media Superiore – SMS) sarebbe una delle cause principali dell’elevato tasso di disoccupazione giovanile. Ma questo legame di causalità, tanto sbandierato nel corso degli anni, corrisponde davvero alla realtà?
Se osserviamo la situazione degli altri paesi sviluppati, possiamo facilmente notare come vi siano esempi di nazioni con tassi di licealizzazione superiori al nostro, ma con tassi di disoccupazione giovanile uguali o addirittura minori. Un esempio lampante è quello della Finlandia: con ben il 55% di studenti nell’insegnamento secondario generalista, il paese scandinavo vanta uno dei tassi di disoccupazione giovanile più bassi d’Europa (situato attorno al 17-18%, a livello di quello ticinese). Il nesso rivendicato dall’imprenditoria ticinese appare quindi più pretestuoso che realmente basato su dati oggettivi.
Ma non limitiamoci a questa constatazione. Data l’infondatezza del presupposto di base, viene da chiedersi se la soluzione proposta sia davvero adeguata: un “miglior” orientamento potrebbe davvero contribuire, come sostenuto dagli iniziativisti, a risolvere la crescente problematica della disoccupazione giovanile?
Per rispondere a questa domanda, occorre cercare di comprendere le REALI cause della disoccupazione giovanile in Ticino. Uno studio sul tema realizzato dall’Ufficio di statistica afferma che:
Questo (la maggiore vulnerabilità delle fasce più giovani della popolazione, ndr.) è almeno in parte dovuto a una maggior esposizione agli attriti che inevitabilmente incombono nella transizione dalla formazione al mercato del lavoro.
I giovani, dimostrando una maggior facilità di (re)inserimento sul mercato, rimangono disoccupati per periodi generalmente più brevi rispetto al resto della popolazione. Negli ultimi anni però, i tempi per la ricerca d’impiego sembrano essersi dilatati, e parallelamente il tasso di disoccupazione giovanile è aumentato. L’accresciuta difficoltà nel (re)inserimento è, almeno in parte, indotta da un mercato del lavoro che diventa sempre più esigente in termini di qualifiche richieste, mettendo sotto pressione il segmento più giovane della popolazione che palesa, dovuto alla giovane età, minor livelli d’istruzione (magari perché non hanno ancora raffinato il percorso formativo) e meno anni d’esperienza professionale alle spalle.
A ciò va poi naturalmente aggiunto il particolare contesto del mercato del lavoro ticinese, minacciato dalla prossimità con il “bacino di manodopera” a basso costo della Lombardia (reso accessibile da una liberalizzazione incontrollata delle relazioni bilaterali). Questa situazione consente ai datori di lavoro di esercitare una forte pressione sui salari e sulle condizioni di lavoro che va spesso anche a scapito dei giovani (come detto, più deboli nelle trattazioni contrattuali), creando fenomeni come il dumping salariale o la sottoccupazione (che in Ticino riguarda poco meno di un migliaio di giovani tra i 15 e i 24 anni, secondo le rilevazioni dello studio succitato).
Viene quindi da chiedersi se la “colpa” sia da attribuire agli studenti, come fanno gli iniziativisti (che parlano di “contrastare la mancanza di manodopera qualificata” promuovendo delle scelte formative più oculate), o se la crescente disoccupazione giovanile (vedi grafico, tratto da “Ai margini del mercato del lavoro“, USTAT) sia da attribuire ad un mercato del lavoro divenuto troppo esigente nei confronti dei giovani lavoratori. Questi vengono in effetti costretti tra una sempre maggiore richiesta di qualifiche e di esperienze professionali e delle condizioni salariali e di lavoro in continuo degrado (salari stagnanti, maggiore flessibilità, precarietà degli impieghi, ecc.): chi è allora a “sbagliare”? Dove è finita la famosa “responsabilità sociale” delle imprese, che invece di sostenere i giovani nella ricerca dei primi impieghi li costringono ad accettare posti di lavoro a condizioni miserevoli o a finire in disoccupazione?
D’altra parte, non è da dimenticare il preoccupante fenomeno dell’emigrazione interna dei giovani ticinesi, che sempre più si trasferiscono Oltralpe dopo aver terminato gli studi in cerca di migliori opportunità lavorative (negli ultimi 15 anni il Ticino ha visto diminuire la propria popolazione tra i 20 e i 39 anni di 6’000 unità, ossia del 7-8%…!). Ma chi sono questi “migranti” intraconfederati? Giovani poco qualificati spinti da un livello dei salari al di sotto delle loro aspettative o studenti con un alta formazione che in Ticino non trovano un impiego corrispondente alle proprie esigenze? Secondo Elio Venturelli, già direttore dell’Ufficio cantonale di statistica:
è molto probabile che ad andarsene siano stati i giovani con le migliori qualifiche professionali, la cui formazione è stata pagata dal nostro cantone, ciò che rappresenta una perdita considerevole per le finanze cantonali.
Viene quindi da chiedersi di cosa parlino Pini e compari quando sostengono di voler “valorizzare ancora di più passioni, interessi, qualità e punti di forza dei nostri giovani”: riusciamo a formare fior fior di accademici di alto e altissimo livello, ma li costringiamo a lasciare il Ticino perché non vi trovano impieghi se non a salari da fame… State davvero sostenendo che sono gli studenti a sbagliare scelte formative? Non è piuttosto il tessuto economico cantonale a non essere adeguato al potenziale della popolazione, e in particolare dei giovani? Ah no, giusto: secondo voi c’è “mancanza di manodopera qualificata”…
Post Scriptum: la prossima volta che ci venite a chiedere di fare “sacrifici” con senso di “responsabilità”, rinunciando alle borse di studio, ricordatevi che di soldi ne potreste risparmiare evitando di costringere all’esodo centinaia e centinaia di ticinesi laureati!
I giovani (e le famiglie) preferiscono il liceo alla formazione professionale perché non la conoscono o lo fanno proprio perché la conoscono?
Un’altra delle motivazioni addotte dagli iniziativisti è quella per cui sostanzialmente gli studenti (e le famiglie alle loro spalle) stiano sbagliando a non scegliere la strada della formazione professionale semplicemente perché non ne conoscono le “opportunità formative di qualità e di carriera”. Ebbene, non potrebbe essere proprio perché le conoscono che decidono di “tentare la sorte”, iscrivendosi ad un indirizzo di studio più prestigioso come il liceo?
In effetti, non sono pochi gli elementi che confermano come la scelta di un apprendistato potrebbe condurre ad una situazione sociale ed occupazionale non particolarmente invidiabile (e soprattutto, difficilmente migliorabile!).
In primo luogo, a tenere banco è l’aspetto salariale, certamente uno dei più considerati. Se osserviamo il grafico sottostante (tratto dal monitoraggio “Scuola a tutto campo”, edizione 2015), possiamo facilmente notare come a un titolo di studio più elevato corrisponda uno stipendio nettamente maggiore rispetto agli altri. È interessante considerare a questo proposito la flessione registrata nel salario mediano dei laureati, che conferma l’ipotesi di cui sopra in merito alla “fuga di cervelli” dal nostro Cantone.
D’altra parte, i ricercatori dell’USTAT ci confermano ancora come “il rischio di vivere un periodo di disoccupazione è maggiore quando il livello di formazione è basso”. Nel 2013, il tasso di disoccupazione delle persone con un titolo di studio di grado terziario si attestava infatti al 2,1%, salendo al 4,3% per coloro che detengono un diploma di grado secondario e al 6,7% per quelli con un’istruzione primaria.
Infine, non si può non menzionare l’impatto delle scelte formative sul destino sociale degli studenti. Come dimostra un recente studio dell’Università di Losanna, la mobilità sociale viene fortemente condizionata dai titoli di studio conseguiti (vedi grafico): in parole povere, il figlio di un operaio che decide di fare il commesso non ha quasi nessuna possibilità di conquistare una posizione sociale più elevata di quella di suo padre. Al contrario, se decidesse di proseguire gli studi e di ottenere una laurea, le sue possibilità di ascesa sociale crescerebbero in modo importante. Da notare anche l’effetto della selezione sociale esercitata dalla scuola, che, a parità di titolo di studio, dà sempre e comunque delle migliori chances di ascesa sociale a chi già proviene da una classe sociale più agiata (effetto che sembra diminuire con l’aumento del livello di studio, a riprova del fatto che ad un titolo di studio più elevato corrisponde una maggiore equità nelle possibilità di affermazione sociale).
Quale dovrebbe essere la funzione dell’orientamento scolastico? Ma soprattutto, cosa rischia di diventare?
L’infondatezza delle motivazioni addotte dai promotori della riforma ci porta ad interrogarci sulle reali intenzioni di questi ultimi: se l’obiettivo non è quello di combattere la disoccupazione giovanile, a cosa puntavano Pini & co con questa iniziativa?
Abbiamo già accennato alla storica battaglia del padronato contro l’eccessiva licealizzazione dei giovani ticinesi, che oggi, dopo numerose (e infruttuose) campagne di promozione dell’apprendistato, potrebbe essere giunta ad una svolta decisiva. Potendo partecipare direttamente (come spesso già avviene oggi) agli eventi informativi per gli studenti (ad esempio Espoprofessioni), alla preparazione del materiale informativo per gli allievi (come il manuale “Scuola media, e poi?”), potendo organizzare eventi di formazione per gli orientatori scolastici (che potrebbero diventare sempre più simili ai moderni “head hunters” che non a dei disinteressati consulenti al servizio degli allievi), potendo influenzare le direttive dell’Ufficio dell’orientamento (UOSP), ecc. il padronato avrà finalmente la possibilità di indirizzare i giovani verso i settori economici nei quali si riscontra una carenza di manodopera o nei quali intende ampliare l’attività economica (“restare al passo continui mutamenti del mercato del lavoro e di prevedere lo sviluppo di nuova opportunità”). Eppure il governo, nel suo messaggio, ricordava la “riaffermazione del principio della libertà della scelta formativa e professionale del giovane” e il “ruolo sussidiario del servizio di orientamento rispetto al percorso di auto responsabilizzazione del giovane”…
Quale delle due esigenze prevarrà quindi nell’orientamento scolastico del futuro? Il rispetto dell’autonomia e dei desideri dello studente o gli interessi economici di breve-medio termine del padronato nostrano? Vista la decisione presa, ci pare piuttosto evidente quale sia la risposta…
Ma a preoccuparci è anche un’altro aspetto, meno esplicito ma altrettanto preoccupante per il destino del diritto allo studio e delle pari opportunità di formazione. Dietro a questa riforma dell’orientamento, si nasconde infatti un pericoloso rafforzamento della funzione di riproduzione e di conservazione sociale della scuola.
Attraverso una promozione della formazione professionale (da realizzarsi con il supporto dei nuovi orientatori/”head hunters”) e un’aumento della selettività degli studi liceali (a questo proposito, è interessante notare come il governo stesso consideri il limite alle ripetizione alle SMS un elemento della lotta contro la “probabilmente eccessiva licealizzazione della scuola ticinese”), il padronato mira ad aumentare il numero di giovani che “scelgono” una formazione professionalizzante e a diminuire quelli che ricevono un’istruzione generalista. Ma siamo certi che questa ripartizione avverrà in modo equo e non verrà influenzata dall’origine sociale degli studenti?
Se osserviamo i dati sulla composizione sociale degli allievi nei differenti ordini scolastici, riportata in questo grafico (estratto dal monitoraggio “Scuola a tutto campo”, edizione 2015), possiamo notare come nelle Scuole medie superiori vi sia una sovrarappresentazione di studenti delle classi sociali più alte (sottorappresentati per contro nell’apprendistato). Viceversa, gli studenti di origine sociale più bassa frequentano maggiormente gli indirizzi professionali e sono sottorappresentati nei licei e nella formazione di grado terziario.
Il disegno della classe dirigente appare quindi più chiaro (e inquietante). Da un lato, mira ad accentuare questa polarizzazione sociale negli indirizzi formativi, segregando le classi sociali inferiori nelle scuole professionali e nelle mansioni lavorative più umili e assicurandosi il monopolio della formazione accademica e delle posizioni al vertice della gerarchia sociale. Dall’altro, punta a privare le classi medio-basse degli strumenti culturali che le possano permettere di riscattarsi dalla sua condizione di subalternità: un operaio che comprende la relazione di sottomissione tra il capitale e il lavoro potrebbe risultare difficile da controllare e potrebbe presentare tendenze “rivoluzionarie”… Per questo è importante che non abbia la possibilità di sviluppare questa coscienza critica, e che venga quindi formato in una scuola a “basso contenuto culturale” come lo sono le nostre scuole professionali.
Ora però dateci il nostro spazio!
Evidentemente, questa prospettiva non è particolarmente allettante per chi, come noi, si batte da anni per un’istruzione libera dai diktat del mercato e per una maggiore equità nelle opportunità di formazione.
Tanto più che, se è vero che la riforma prevede la partecipazione delle organizzazioni sindacali, il SISA è sempre stato escluso da qualunque attività legata all’orientamento scolastico. Possiamo quindi ben comprendere quali saranno gli equilibri nel “nuovo orientamento”: carta bianca alle imprese per la loro pubblicità d’impiego e restrizioni ai sindacati, come il nostro, che si battono per una maggiore coscienza in merito ai diritti degli studenti e degli apprendisti e per un’effettiva libertà nelle scelte formative.
Tuttavia, tentar non nuoce: il SISA ha quindi inviato una lettera al Dipartimento dell’educazione per ricevere conferma della possibilità di partecipare agli eventi informativi per gli studenti e a tutte le altre attività che riguardano (e riguarderanno) l’orientamento scolastico e professionale. Per ora, ci limitiamo ad attendere risposta. Poi, si vedrà.