Appunti per un bilancio critico dell’anno scolastico 2015-’16 (Z. Casella)

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di Zeno Casella, coordinatore del SISA

 

 

L’anno scolastico 2015-2016 si è appena concluso e, come è giusto che sia, è arrivato il momento di tracciare un bilancio sulla scuola ticinese e sull’operato del Dipartimento dell’educazione (DECS).

Quest’esercizio è stato già svolto dai funzionari del DECS, i quali hanno presentato martedì 14 giugno un resoconto sulle attività svolte quest’anno. Ed è proprio il contenuto di quest’ultimo ad averci dato lo spunto per proporre qualche considerazione critica sulla gestione attuale del DECS e sulle prospettive della nostra scuola.

Da quanto emerge dal bilancio dipartimentale, parrebbe infatti che negli uffici di Bellinzona ci si stia dando un gran da fare per migliorare il nostro sistema scolastico e per assicurare delle buone condizioni di apprendimento e di insegnamento a studenti e docenti. Tuttavia, il quadro generale non è purtroppo così roseo come si vorrebbe far credere: nel rapporto vengono omessi vari lati negativi, o quantomeno ambigui, che caratterizzano il sistema scolastico ticinese e la politica scolastica governativa.

1. Una scuola ancora troppo problematica

La scuola ticinese costituisce la casa di ben 56’500 studenti che, con gli oltre 5’600 docenti, rappresentano circa il 18% della popolazione totale del nostro Cantone. Una quota piuttosto rilevante, motivo per cui una certa attenzione a quanto avviene a livello di istruzione è più che giustificata.

Il mondo scolastico in Ticino è ancora troppo spesso un luogo di segregazione sociale ed etnica, come ci dimostrano i dati del monitoraggio “Scuola a tutto campo” del 2015: in media, gli studenti che provengono da famiglie di ceto medio-basso hanno infatti dei risultati scolastici notevolmente peggiori rispetto ai propri compagni di estrazione sociale più elevata (basti pensare alla composizione sociale nei livelli A e B nella scuola media o al tasso di bocciature nelle scuole superiori). Inoltre, gli studenti stranieri sono notevolmente sovrarappresentati nelle scuole professionali rispetto agli studenti svizzeri, che invece abbondano nelle scuole medie superiori.

Se si osserva poi il grado di benessere degli allievi ticinesi, si può notare come ancor oggi la scuola venga vissuta come un’esperienza più negativa che positiva: più della metà affermano di essere stressati dalla scuola (tasso che aumenta con il proseguimento degli studi), così come circa uno studente su due sostiene di annoiarsi a lezione.

Insomma, qualche riflessione certamente s’impone, a tutti i livelli scolastici. Questo parere, che sembrerebbe venir condiviso anche dal ministro Bertoli (basti leggere la sua prefazione al monitoraggio di cui sopra), non trova però alcuna corrispondenza nella politica scolastica del DECS, come ci apprestiamo a vedere.

2. Un nuovo anno di tagli

Il 2016, a livello finanziario, è stato un anno all’insegna della continuità: si è infatti continuato, come da ormai 20 anni a questa parte, a tagliare la spesa per l’istruzione.

Ricordiamo alcune delle varie misure di risparmio, già aspramente criticate dal SISA, contenute nel preventivo dello Stato per l’anno corrente: il blocco degli scatti salariali dei docenti e la riduzione degli stipendi di quelli che si trovano a fine carriera; il calo di oltre un milione di franchi degli investimenti nell’educazione; la pesantissima riduzione dei contributi cantonali per le scuole comunali (con un risparmio di 12 milioni).

Inoltre, con la manovra di rientro finanziario recentemente presentata non ci si è astenuti dall’infliggere l’ennesima picconata alla scuola pubblica, sopprimendo vari corsi facoltativi e complementari nelle scuole medie superiori.

3. “Una scuola in mutamento”, ma in quale direzione?

Il sistema scolastico ticinese è innegabilmente in una fase di profonda trasformazione, che passo dopo passo sta ridefinendo le finalità, l’organizzazione e le modalità di funzionamento di questa importante istituzione.

Pilastro principale di questo processo di mutamento è il progetto di riforma “La scuola che verrà”, che mira a riorganizzare l’insegnamento nel settore obbligatorio e su cui non abbiamo mancato di esprimerci. Benché gli obiettivi di questo progetto siano in buona parte condivisibili, gli strumenti proposti – in particolare a livello organizzativo – non mancano di sollevare vari dubbi e di metterci sul chi vive. Tanto più che, sulla base di queste proposizioni ambigue, si è riusciti ad affossare un’iniziativa popolare che aveva il pregio di promuovere una serie di servizi e garanzie che erano inequivocabilmente sinonimo di un’educazione di qualità.

Ma ad attirare la nostra attenzione sono le trasformazioni che stanno venendo promosse da “dietro le quinte”. La politica scolastica per il settore post-obbligatorio è stata infatti quasi completamente ignorata a livello mediatico, benché anche in questo ambito si prospettino radicali mutamenti di paradigma.

Iniziamo con il segnalare la volontà di aumentare la selezione nelle scuole medie superiori, grazie all’introduzione di un limite alle bocciature nel primo triennio di liceo. Se a questo elemento aggiungiamo l’intenzione di rafforzare il tirocinio duale, postulata nelle linee direttive 2015-2019 del Consiglio di Stato, il quadro diviene immediatamente più chiaro: il governo, e il DECS con esso, si sono posti l’obiettivo di ridurre il numero di studenti che seguono una formazione di cultura generale, a tutto vantaggio della formazione professionale (come richiesto ancora recentemente dal padronato nostrano), che assicura all’economia privata abbondante manodopera a basso costo  da formare secondo le proprie specifiche esigenze contingenti.

Ancora una volta ci troviamo di fronte allo stesso quesito: vogliamo davvero immolare la nostra formazione culturale-umanistica sull’altare sacrificale della produttività e del profitto a breve termine? Ci permettiamo di dissentire.

4. Un Dipartimento sempre meno incline al dialogo

A tutto ciò si aggiunge l’atteggiamento sempre più chiuso e sulla difensiva degli alti funzionari del DECS, così come del suo direttore, del governo e del parlamento stessi, che da troppo tempo ormai non sono più disposti a dialogare con il mondo della scuola e con le sue componenti (se non per pura messinscena).

La mobilitazione del 23 marzo é stata un segnale forte in questo senso, in quanto ha esplicitato – con l’unico mezzo ormai rimasto – il malessere vissuto tutti i giorni da studenti, docenti e genitori. Questa non ha però aperto nessuna porta al dialogo, anzi.

Senza volerci addentrare nel discorso sulla consultazione sul progetto “La scuola che verrà”, di cui si è già discusso in lungo e in largo, crediamo sia lecito segnalare come purtroppo al Dipartimento non si ritenga ancora per nulla rilevante il parere degli studenti. Il sindacato non è stato infatti minimamente interpellato sulla proposta di introdurre un limite alle bocciature al liceo (così come sulla soppressione di vari corsi facoltativi e complementari), quando le  vittime di una simile riforma sarebbero proprio gli allievi stessi.

Stupisce leggere le parole del direttore della Divisione Scuola quando sostiene che: “mi sembra in effetti indispensabile che una riforma, per essere attuata con successo, passi attraverso un processo di dialogo e di apprendimento collettivo, orientato alla costruzione di un senso condiviso” (leggi qui). Stupisce perché il limite alle bocciature è ormai già quasi realtà, senza che si abbia dialogato, appreso o costruito un senso condiviso: nel rapporto di fine anno si legge infatti che: “è infine in fase di approvazione il nuovo regolamento delle scuole medie superiori, che tra l’altro introdurrà il limite alle ripetizioni di cui si è già parlato qualche settimana fa anche pubblicamente.”.

Che dire, sarà per la prossima. Forse.

5. Errare è umano, ma perseverare…

In conclusione, ci pare doveroso formulare qualche spunto costruttivo su cui lavorare per invertire la tendenza delineata in precedenza: sarebbe ben poco responsabile restare in disparte a criticare senza partecipare poi alla risoluzione delle problematiche e alla costruzione di una scuola migliore.

Naturalmente, a uno sforzo propositivo da parte nostra dovrebbe corrispondere poi un’apertura al dialogo dalla parte opposta, pena il naufragio di qualunque buon auspicio di “dialogo e apprendimento collettivo”.

Ci permettiamo quindi di portare alla vostra attenzione questi 4 punti, uno per ognuna delle 4 problematiche di cui sopra:

  1. Affrontiamo i veri difetti della scuola ticinese: è inutile trincerarsi dietro begli slogan su equità e inclusività se poi i dati pubblicati dal DECS stesso smentiscono qualsiasi affermazione in questo senso. Occorre perciò che si lavori prima di tutto ad una reale implementazione del diritto allo studio, garantendo finalmente pari opportunità di formazione a tutti i cittadini.
  2. Garantiamo un finanziamento sicuro alla scuola: il sistema scolastico ticinese è afflitto da una grave emorragia che ogni anno gli sottrae energie e risorse per affrontare i propri compiti (peraltro in continua crescita). Se si vuole garantire un’istruzione equa e di qualità, occorre garantire alla scuola i finanziamenti di cui ha bisogno, rimuovendo l’onnipresente spada di Damocle dei “tagli” che pende sulle nostre teste da ormai più di 20 anni.
  3. Modelliamo la scuola sulla società e non sull’economia: le pressioni da parte degli ambienti economici hanno un influsso eccezionale sulle politiche scolastiche cantonali, e l’attuale ministro non è ancora stato in grado di arginarle a dovere, anzi. Così facendo la scuola perde però di vista le necessità della società intera, anteponendo le performance di studio alla costruzione di un sapere collettivo: questa deriva non è sostenibile in una società che si vuole democratica, motivo per cui occorre ridare una dimensione più universale (e non elitaria come vorrebbero taluni) ai saperi, i quali devono essere accessibili a tutti e che devono essere frutto di un percorso collettivo.
  4. Apriamo un tavolo di discussione tra scuola e politica: troppo a lungo sono state ignorate le aspirazioni del mondo della scuola, motivo per cui occorre tornare a sedersi tutti attorno ad un tavolo e a mettere a fuoco quali sono le criticità rilevate da una come dall’altra parte. Questo sottostà però ad una condizione di base inderogabile: la disponibilità da parte della politica a mettere in discussione quanto proposto e attuato fino ad oggi. Vogliamo ritrovarci ad un tavolo per discutere su un piano di parità, non per scrivere vane letterine a Babbo Natale.

Auspichiamo quindi che da parte del DECS e del Governo arrivino dei segnali di apertura, perché se è vero che errare è umano, perseverare invece è diabolico.

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